In questi giorni ho letto un libro sul navigatore Alvise Ca’ da Mosto che mi è piaciuto tanto. Si intitola Andar per mare ed è stato scritto dalla professoressa Anna Unali.
Alvise era un veneziano, rampollo di una famiglia di mercanti che, fin da giovanissimo, praticò la mercatura sulle rotte mediterranee.
All’inizio del Quattrocento, epoca in cui visse lui, la conoscenza dell’orbe terraqueo era limitatissima: si conoscevano le terre che affacciavano sul Mediterraneo e quelle percorse dalla famosa “via della seta” descritte da Marco Polo e da altri mercanti.
Dell’Africa si sapeva ben poco, a parte il Magreb, si sapeva che c’era un grande deserto e, in generale, la Terra era ritenuta molto più piccola di quel che è.
Il giovane Alvise capitò in Portogallo, per i suoi affari, proprio quando questo piccolo Paese atlantico, guidato da don Enrique, detto il Navigatore, iniziava le esplorazioni del Mare Oceano, l’Atlantico, appunto.
La spinta motivazionale principe delle imprese portoghesi non era la “sete di conoscenza”, ovviamente: era il desiderio di trovare oro, spezie e schiavi in abbondanza da rivendere a prezzo concorrenziale agli altri Paesi europei.
Alvise conobbe don Enrique che lo fece partecipare a due spedizioni atlantiche. Il giovane ne fu entusiasta: all’occasione di arricchirsi, si congiungeva in lui il profondo desiderio di esplorare luoghi mai visti, di conoscere genti sconosciute, di vedere piante, animali, fiumi, isole tutte da scoprire. Egli, con le sue caravelle, oltrepassò i limiti conosciuti e si avventurò fino all’allora sconosciuto golfo di Guinea, alle foci del fiume Gambia.
Durante i suoi lunghi e, talvolta, difficili viaggi nell’ignoto, però, Alvise compì un altro viaggio: come l’Ulisse di Joyce, egli esplorò sé stesso, analizzò i sentimenti e le sensazioni che il mondo altro suscitava in lui e ce li raccontò in un memoriale che scrisse quando tornò a Venezia, riordinando i tanti appunti che aveva preso durante la navigazione.
Egli ci racconta l’entusiasmo per le ricchezze che gli europei trovarono e depredarono in Africa (del resto, Alvise era uomo del suo tempo e mercante) ma, anche, descrive il suo stupore davanti a luoghi bellissimi e per lui insoliti, esprime la sua meraviglia per la vita semplice e serena di molte delle popolazioni che incontra, ci fa vedere la bellezza delle donne e degli uomini delle tribù africane e si chiede, talvolta, se non è migliore la vita tranquilla e povera di quei popoli che non la sua, affaccendata e piena di pensieri.
La risposta non ce l’ha data esplicitamente ma essa emerge dalla narrazione: Alvise apprezza e talvolta ammira il modo di vivere dei popoli che incontra ma, da quell’uomo equilibrato, maturo e curioso di sapere che egli è, ama anche profondamente la sua di vita che gli permette di viaggiare e di fare esperienze che nessuno ha mai fatto prima di lui, di scoprire un mondo nuovo fuori e dentro di lui.
Alvise era un veneziano, rampollo di una famiglia di mercanti che, fin da giovanissimo, praticò la mercatura sulle rotte mediterranee.
All’inizio del Quattrocento, epoca in cui visse lui, la conoscenza dell’orbe terraqueo era limitatissima: si conoscevano le terre che affacciavano sul Mediterraneo e quelle percorse dalla famosa “via della seta” descritte da Marco Polo e da altri mercanti.
Dell’Africa si sapeva ben poco, a parte il Magreb, si sapeva che c’era un grande deserto e, in generale, la Terra era ritenuta molto più piccola di quel che è.
Il giovane Alvise capitò in Portogallo, per i suoi affari, proprio quando questo piccolo Paese atlantico, guidato da don Enrique, detto il Navigatore, iniziava le esplorazioni del Mare Oceano, l’Atlantico, appunto.
La spinta motivazionale principe delle imprese portoghesi non era la “sete di conoscenza”, ovviamente: era il desiderio di trovare oro, spezie e schiavi in abbondanza da rivendere a prezzo concorrenziale agli altri Paesi europei.
Alvise conobbe don Enrique che lo fece partecipare a due spedizioni atlantiche. Il giovane ne fu entusiasta: all’occasione di arricchirsi, si congiungeva in lui il profondo desiderio di esplorare luoghi mai visti, di conoscere genti sconosciute, di vedere piante, animali, fiumi, isole tutte da scoprire. Egli, con le sue caravelle, oltrepassò i limiti conosciuti e si avventurò fino all’allora sconosciuto golfo di Guinea, alle foci del fiume Gambia.
Durante i suoi lunghi e, talvolta, difficili viaggi nell’ignoto, però, Alvise compì un altro viaggio: come l’Ulisse di Joyce, egli esplorò sé stesso, analizzò i sentimenti e le sensazioni che il mondo altro suscitava in lui e ce li raccontò in un memoriale che scrisse quando tornò a Venezia, riordinando i tanti appunti che aveva preso durante la navigazione.
Egli ci racconta l’entusiasmo per le ricchezze che gli europei trovarono e depredarono in Africa (del resto, Alvise era uomo del suo tempo e mercante) ma, anche, descrive il suo stupore davanti a luoghi bellissimi e per lui insoliti, esprime la sua meraviglia per la vita semplice e serena di molte delle popolazioni che incontra, ci fa vedere la bellezza delle donne e degli uomini delle tribù africane e si chiede, talvolta, se non è migliore la vita tranquilla e povera di quei popoli che non la sua, affaccendata e piena di pensieri.
La risposta non ce l’ha data esplicitamente ma essa emerge dalla narrazione: Alvise apprezza e talvolta ammira il modo di vivere dei popoli che incontra ma, da quell’uomo equilibrato, maturo e curioso di sapere che egli è, ama anche profondamente la sua di vita che gli permette di viaggiare e di fare esperienze che nessuno ha mai fatto prima di lui, di scoprire un mondo nuovo fuori e dentro di lui.
Nessun commento:
Posta un commento