Oggi sono stanca morta e, per una volta, mi riposo, così il consueto post domenicale lo ha scritto la FG, vedrete che non ci perderete nel cambio.
Ero su un autobus imprecisato in un luogo imprecisato in un lasso di tempo estremamente breve e, a modo suo, preciso: una fermata.
Questo autobus imprecisato era moderatamente pieno di gente ed io mi ritrovai in piedi, a poca distanza dalla porta centrale, quasi accanto all’ultimo sedile prima di essa.
Sul sedile c’era una signora giovane, di colore e incinta e fra me e lei un ragazzo dalla testa rasata che le urlava insulti e le diceva che non poteva stare seduta lì per via del suo colore di pelle.
Sentivo il pesante accento romano di quel ragazzo riempire l’autobus e mi voltai ad analizzare le reazioni degli altri passeggeri: Sgomento, fastidio, l’immobilità di chi cerca qualcosa da ribattere. Il più pensoso sembrava un ragazzo situato all’altro lato della porta, immagino stesse cercando un modo di reagire nonostante le quattro persone frapposte fra lui e il razzista dal cranio rasato.
Ad un certo punto le vocali strascicate e i contenuti abietti del discorso di quel tizio mi invasero totalmente la testa: vidi che la signora di colore si stava alzando nella speranza che questo placasse il suo aggressore. La fermata era ormai visibile.
Senza nemmeno capire quello che stavo facendo, mi avvicinai all’armadio dal cranio rasato come per chiedere permesso (sapevo di dover scendere all’altro capolinea ma è ciò che feci), restando muta, le mani in avanti come se volessi spostare gentilmente quell’orrendo tizio.
Senza dire una parola, incredibilmente, il tizio iniziò silenziosamente a muoversi all’indietro per lasciarmi spazio. Le mie mani rimasero in avanti continuando, apparentemente, ad invocare spazio mentre plasmavano un movimento silenzioso che stava conducendo il disturbatore rasato verso le porte centrali che, nel frattempo, si erano aperte.
Non solo si erano aperte, stavano anche iniziando il loro movimento di chiusura.
Con le mani accompagnai docilmente la discesa dell’insoffribile disturbatore, come se dovessi scendere a mia volta, solo che, mentre le porte si chiudevano, io ritrassi le mani e, con un sorriso a trentadue denti, sollevai la destra facendo ciao ciao al ragazzo rasato che mi guardava con aria bovina.
Con tutto il rispetto per la classe bovina, lo sguardo di colui fu tale da incarnare la parola “sguardo bovino” al punto di renderla tangibile, più di quanto potrà mai renderla tangibile lo sguardo di alcun bovino effettivo (indipendentemente dalla sua razza o nazionalità).
Il ragazzo dall’altra parte della porta mi guardò esterrefatto, e mi disse – Ma lo hai buttato giù dall’autobus!!! – Senza capire che, io stessa, non me ne ero resa conto prima di aver terminato la mia azione.
Tentennai un momento, poi lo guardai e gli dissi con un’aria più compita di quanto avrei voluto – Mi spiace ma io i razzisti proprio non li sopporto. – Il ragazzo annuì ma non rispose.
Una signora anziana, che era seduta ad un posto abbastanza vicino a noi, sorrideva molto soddisfatta.
Quando ho raccontato questo episodio a mamma, lei ha cominciato a ridere, felice e, credo, piuttosto orgogliosa di me.
E ancora rido tutte le volte che ci viene in mente la perfida vendetta della Piccola giustiziera antirazzista!
Ero su un autobus imprecisato in un luogo imprecisato in un lasso di tempo estremamente breve e, a modo suo, preciso: una fermata.
Questo autobus imprecisato era moderatamente pieno di gente ed io mi ritrovai in piedi, a poca distanza dalla porta centrale, quasi accanto all’ultimo sedile prima di essa.
Sul sedile c’era una signora giovane, di colore e incinta e fra me e lei un ragazzo dalla testa rasata che le urlava insulti e le diceva che non poteva stare seduta lì per via del suo colore di pelle.
Sentivo il pesante accento romano di quel ragazzo riempire l’autobus e mi voltai ad analizzare le reazioni degli altri passeggeri: Sgomento, fastidio, l’immobilità di chi cerca qualcosa da ribattere. Il più pensoso sembrava un ragazzo situato all’altro lato della porta, immagino stesse cercando un modo di reagire nonostante le quattro persone frapposte fra lui e il razzista dal cranio rasato.
Ad un certo punto le vocali strascicate e i contenuti abietti del discorso di quel tizio mi invasero totalmente la testa: vidi che la signora di colore si stava alzando nella speranza che questo placasse il suo aggressore. La fermata era ormai visibile.
Senza nemmeno capire quello che stavo facendo, mi avvicinai all’armadio dal cranio rasato come per chiedere permesso (sapevo di dover scendere all’altro capolinea ma è ciò che feci), restando muta, le mani in avanti come se volessi spostare gentilmente quell’orrendo tizio.
Senza dire una parola, incredibilmente, il tizio iniziò silenziosamente a muoversi all’indietro per lasciarmi spazio. Le mie mani rimasero in avanti continuando, apparentemente, ad invocare spazio mentre plasmavano un movimento silenzioso che stava conducendo il disturbatore rasato verso le porte centrali che, nel frattempo, si erano aperte.
Non solo si erano aperte, stavano anche iniziando il loro movimento di chiusura.
Con le mani accompagnai docilmente la discesa dell’insoffribile disturbatore, come se dovessi scendere a mia volta, solo che, mentre le porte si chiudevano, io ritrassi le mani e, con un sorriso a trentadue denti, sollevai la destra facendo ciao ciao al ragazzo rasato che mi guardava con aria bovina.
Con tutto il rispetto per la classe bovina, lo sguardo di colui fu tale da incarnare la parola “sguardo bovino” al punto di renderla tangibile, più di quanto potrà mai renderla tangibile lo sguardo di alcun bovino effettivo (indipendentemente dalla sua razza o nazionalità).
Il ragazzo dall’altra parte della porta mi guardò esterrefatto, e mi disse – Ma lo hai buttato giù dall’autobus!!! – Senza capire che, io stessa, non me ne ero resa conto prima di aver terminato la mia azione.
Tentennai un momento, poi lo guardai e gli dissi con un’aria più compita di quanto avrei voluto – Mi spiace ma io i razzisti proprio non li sopporto. – Il ragazzo annuì ma non rispose.
Una signora anziana, che era seduta ad un posto abbastanza vicino a noi, sorrideva molto soddisfatta.
Quando ho raccontato questo episodio a mamma, lei ha cominciato a ridere, felice e, credo, piuttosto orgogliosa di me.
E ancora rido tutte le volte che ci viene in mente la perfida vendetta della Piccola giustiziera antirazzista!
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