Stamattina, mentre andavo al
Cimitero, un po’ triste, un po’ con la testa alle mille cose da fare per la
scuola: pezzi di carta inutili, per lo più ma che se non vengono consegnati i
dirigenti fanno un mucchio di storie, mentre camminavo guardando con molta
attenzione il marciapiede, sconnesso come tutti i marciapiedi romani e mi
concentravo per non cadere e sfracellarmi come mi capita spessissimo, ho alzato
gli occhi al cielo e mi sono fermata estasiata.
Il cielo romano, in questo terso
sabato d’ottobre, era di un azzurro del tutto simile a quello che Luca della
Robbia, nel Quattrocento, riusciva a creare per i suoi smalti meravigliosi,
quell’azzurro che tanto piace alla mia Fg e che la fa camminare a naso in su,
con conseguenti craniate devastanti contro pali della luce e paline dell’atac.
Un azzurro che non si può
descrivere, che esiste solo nelle opere dei della Robbia e nel cielo di Roma e
chi non lo ha mai visto non può capire.
Chi non lo ha mai visto non può
capire perché io, dopo aver alzato gli occhi, per un po’, ho dimenticato la mia
tristezza, i pezzi di carta, il dirigente scolastico e tutte le altre noie e mi
sono ritrovata il cuore pieno di gioia stupita e rallegrante. Io non lo so
spiegare: semplicemente, quel cielo ti invita a tuffarcisi dentro.
Ecco, Leopardi, anche se lui non
si riferiva a Roma, ci ha descritto quello che il cielo di questa città fa alle
nostre anime:
“Così tra
questa
Immensità
s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce
in questo mare”
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